Il 10 febbraio si celebra il giorno del ricordo delle Foibe, un massacro per troppi anni caduto nel silenzio.
Parlare delle Foibe e di quei tragici avvenimenti che sconvolsero tutta l’Italia nord orientale, a partire da quell’8 settembre 1943, é come lacerare il muro dei ricordi. Ricordi che fanno male , ricordi da dimenticare, specie se pregni di quell’emotività tipica di un legame forte, quale può essere quello tra padre e figlia.
Giorni terribili in cui anche quegli pseudo ideali che avevano animato migliaia di giovani, come mio padre, pronti a morire in nome della patria, svanirono in una cruda realtà, fatta di #morte.
Potrei dire Lui c’era, potrei dire che anche quella sua decorazione di eroe di guerra è un riconoscimento effimero di un momento di disperazione. Uno di quei momenti in cui l’istinto prevale sulla ragione e la forza scaturisce dalla voglia di non cadere vivo nelle mani del nemico, unitamente ai propri uomini.
Ma le parole non possono concretizzare quei silenzi fatti di orrore che, sin da piccola, ho letto nei suoi occhi quando lo invitavo a parlarmi del fronte slavo.
Un ritorno doloroso
Uccidere per non essere ucciso. Questa la dura lotta per la sopravvivenza che la guerra t’impone. E come sia riuscito a salvarsi, specie nel suo ruolo di ufficiale, dalle milizie di #Tito, ancora oggi, per me è un’incognita.
Odiava Tito, ma non mi ha mai voluto parlare delle Foibe, quelle fosse naturali tipiche dei territori carsici, talvolta estremamente profonde.
Luoghi che erano deputati dalle milizie Jugoslave di Tito ad accogliere i corpi di tanti, colpevoli solo di essere italiani e quindi fascisti. Ma non solo corpi, anche persone, ancora vive, venivano scagliate nelle Foibe, in quell’oblio della morte.
Un massacro atroce. Un massacro che ha visto l’indifferenza di tutti, taciuto persino dai libri di storia per troppi anni. Avvolto da un silenzio in grado anche di negare la storia stessa, qualora questa sia narrazione veritiera dei fatti.
Mio padre era lì e con lui tanti giovani, mandati a morire da un regime nel quale molti non credevano. Un regime che, come tutti i totalitarismi, siano essi di destra che di sinistra, impone scelte, coercisce e nega ogni libertà.
I partigiani di Tito
Ferocemente motivati da una propaganda manipolatrice, i #partigiani di Tito erano spietati in combattimento, e non solo.
Uccidevano, proclamando il loro antifascismo, dimenticando che anche gli italiani erano vittime di un regime che li obbligava a vivere secondo precise regole.
E fu proprio in quel fatidico 8 settembre, infangato dalla fuga precipitosa dell’allora capo del governo Badoglio, che l’Italia conobbe la tragedia della sua divisione. Il Sud venne liberato dalle truppe ‘alleate’, mentre i tedeschi manifestarono una rabbia terribile nel centro nord. Una rappresaglia nei confronti degli ex alleati scritta con il sangue delle tante vittime civili che caddero sotto i colpi dei nazisti.
La guerra non era finita. Aveva mutato aspetto, ma era ancora più cruenta. Ogni uccisione era legittimata dall’odio. Come se ci fossero ragioni plausibili per uccidere!
Migliaia di esuli
Tanti, troppi gli italiani costretti ad abbandonare le proprie case, le proprie terre, le proprie radici. Dall’Istria, dalla Dalmazia, l’esodo fu massiccio. In migliaia cacciati da #Tito, ma considerati non italiani dagli altri italiani.
Solo con il trattato di pace del 10 febbraio 1947, finalmente l’Italia nord orientale ebbe il suo assetto definitivo. Trieste rimase italiana. Tutti gli altri territori entrarono a far parte della Jugoslavia.
Fu la sconfitta definitiva di una nazione che aveva fatto delle scelte politiche che l’avrebbero portata sull’orlo del baratro.
Ma gli orrori di quella guerra rimasero per sempre negli occhi di quanti l’avevano vissuta. E, tra essi, anche mio padre.
#IrmaSaracino
L’immagine principale è un momento d’azione del battaglione comandato da mio padre